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Alzheimer: in un parassita la possibile prevenzione?

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Redazione 10 Maggio 2020
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Lo studio della Università degli Studi di Milano e della Fondazione Don Gnocchi sull’interazione tra un’infezione parassitaria e la prevenzione dell’Alzheimer

La malattia di Alzheimer colpisce prevalentemente individui anziani, ha un’eziologia ancora sconosciuta ed è una condizione neurodegenerativa caratterizzata da una progressiva demenza da severa infiammazione, per la quale non esiste ancora alcuna cura. Diversi studi hanno mostrato come i meccanismi infiammatori, probabilmente scatenati dalla presenza di placche di amiloide nel cervello, siano secondari all’attivazione di un sistema multiproteico intracellulare chiamato inflammasoma.

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professor Mario Clerici – Irccs Don Gnocchi

Prevenire la malattia di Alzheimer…con un parassita?

Un recente articolo pubblicato sul New York Times ha rivelato come in una tribù amazzonica studiata per anni non vi fosse alcun segno di Alzheimer negli anziani, nonostante la presenza del solo fattore di rischio generico noto: ApoE4; il giornalista ipotizzava come ciò potesse essere collegato alla presenza di infezioni parassitarie.

Stimolati da questa osservazione, l’Università degli Studi di Milano e la Fondazione Don Gnocchi (prof. Mario Clerici, Donatella Taramelli e Nicoletta Basilico e dr.sse Marina Saresella e Helen Banks) hanno condotto uno studio che ha verificato la possibilità che l’infezione con Leishmania, un parassita endemico in Amazzonia, possa inibire l’attivazione dell’inflammasoma e lo sviluppo di infiammazione in cellule stimolate con amiloide, o di pazienti con malattia di Alzheimer.

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dottoressa Marina Saresella – Irccs Don Gnocchi

I risultati, pubblicati sulla prestigiosa rivista Brain, Behavour and Inflammation hanno confermato questa ipotesi: l’infezione con parassiti impedisce lo sviluppo di infiammazione e potrebbe avere un possibile ruolo protettivo contro lo sviluppo della malattia.
L’idea di utilizzare composti derivati da parassiti come farmaci immunomodulatori in malattie autoimmuni era già stata avanzata in precedenza. Recenti risultati ottenuti in modelli animali hanno evidenziato che questo tipo di approccio potrebbe essere di beneficio anche in malattie umane; quest’ultimo studio suggerisce la possibile utilità anche per la malattia di Alzheimer.

Fonte: Don Gnocchi

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