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Farmaci antidepressivi: quali sono e come funzionano

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Francesca 18 Gennaio 2024
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farmaci antidepressivi sono un gruppo di farmaci che agiscono regolando delle sostanze chimiche presenti nel cervello chiamate neurotrasmettitori e sono in grado di influenzare l’umore, il sonno e l’energia. Questi farmaci vengono impiegati per trattare diversi disturbi come la depressione, l’ansia, gli attacchi di panico, le condizioni di stress post-traumatico, il dolore cronico e molti altri.

Tuttavia, la loro storia è legata principalmente ad uno dei disturbi più diffusi nella popolazione: la depressione. Ecco l’approfondimento dell’Istituto Mario Negri.

Che cos’è la depressione?

La depressione fa parte dei cosiddetti disturbi mentali comuni, così chiamati perché molto diffusi. Nel corso della vita tra il 15 e il 20% della popolazione ha almeno un episodio depressivo, con un esordio nella maggior parte dei casi tra 20 e 30 anni.

In Italia circa 3 milioni di adulti soffrono di questo disturbo.

Si stima che nel 13% dei casi costituisca il motivo principale per la richiesta di cure e ha una prevalenza elevata nelle persone che hanno malattie fisiche croniche: 9% nel diabete, 11% nell’artrite, 15% nell’angina pectoris, 18% nell’asma.

I SINTOMI DELLA DEPRESSIONE

I sintomi della depressione possono presentarsi in varie combinazioni e coinvolgere ambiti emotivi, cognitivi, comportamentali e fisici.

Secondo i sistemi diagnostici attualmente utilizzati in psichiatria, come l’ICD-10 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e il DSM-5 dell’American Psychiatric Association, i principali sintomi di un episodio depressivo includono:

  • una tristezza persistente associata a una mancanza di speranza per il futuro,
  • la riduzione dell’autostima e della fiducia in sé stessi,
  • la comparsa di sensi di colpa o inutilità pensieri legati alla morte,
  • la perdita di interesse e di emozioni positive.

Altri sintomi possono comprendere la perdita di energia e attività, con una marcata stanchezza, rallentamento psicomotorio o agitazione, diminuzione dell’appetito con perdita di peso, calo della libido, difficoltà nella concentrazione e nel pensiero.

LA DIAGNOSI DELLA DEPRESSIONE

La diagnosi della depressione si basa sull’osservazione del comportamento e sui resoconti del paziente. L’affidabilità della diagnosi è però relativamente bassa e copre una vasta gamma di problemi diversi in termini di gravità e durata. In mancanza di test ed esami strumentali l’esperienza soggettiva assume un ruolo fondamentale. Sarebbe opportuno valutare la depressione sulla base di un indicatore complessivo di gravità dei sintomi

Il termine ‘depressione sottosoglia’ indica la presenza di sintomi depressivi che non hanno l’intensità o la durata ritenute necessarie per una diagnosi formale.

Il decorso di un episodio depressivo varia ampiamente, con il 65% dei casi che guarisce entro l’anno, il 40% rimane isolato, il 60% presenta una ricaduta entro un anno e il 5% ha una depressione persiste per almeno cinque anni.

La visione dei disturbi depressivi è complessa, con combinazioni di sintomi che possono differire notevolmente tra individui. Durante il decorso, possono verificarsi fluttuazioni dei sintomi, da manifestazioni transitorie che si risolvono spontaneamente a condizioni croniche con significativa disabilità sociale. Queste condizioni possono persistere per tutta la vita o presentarsi ricorrentemente con periodi di remissione e ricaduta.

DEPRESSIONE E CAUSE

Diversi fattori di rischio influenzano la comparsa e la durata della depressione, compresi traumi, maltrattamenti, abbandono durante l’infanzia, eventi avversi come lutti, condizioni sociali difficili, conflitti o violenze nelle relazioni interpersonali. Questi aspetti sociali interagiscono con un rischio genetico che contribuisce approssimativamente al 35% dell’esordio della depressione.

Dal punto di vista genetico la depressione è legata a numerosi fattori genetici, ciascuno dei quali fornisce un modesto contributo al rischio complessivo. Questi fattori non determinano direttamente il disturbo ma creano una condizione di vulnerabilità attraverso meccanismi neurobiologici ancora non completamente compresi, coinvolgendo alterazioni nel metabolismo di sostanze cerebrali ( monoamine), come la serotonina e la noradrenalina.  

La vulnerabilità biologica interagisce con la vulnerabilità derivante da eventi avversi. Lo stress durante l’infanzia può portare a modifiche a livello cerebrale sia direttamente che attraverso meccanismi epigenetici (cioè meccanismi che influenzano l’espressione dei geni senza modificarne la sequenza, ad esempio età, dieta, attività fisica o esposizione ad agenti fisici e chimici) influenzando la reattività allo stress negli adulti. Questa maggiore reattività si riscontra soprattutto nelle persone che hanno vissuto traumi durante i primi anni di vita.

Quali sono i farmaci antidepressivi più utilizzati? Dalla nascita ad oggi

La storia del trattamento con farmaci antidepressivi è iniziata alla fine degli anni ’50 con l’introduzione dell’iproniazide, seguito dall’imipramina. Inizialmente, la scoperta delle proprietà antidepressive di questi due farmaci è stata casuale, e non guidata da ipotesi sui meccanismi neurobiologici alla base della depressione.

L’iproniazide, era noto per la capacità di inibire la degradazione di neurotrasmettitori come la serotonina, la noradrernalina e la dopamina (dette amine biogene). Successivamente si è scoperto che anche l’imipramina svolgeva la stessa azione. Questo ha portato allo sviluppo di due famiglie di farmaci antidepressivi: gli inibitori delle monoaminoossidasi simili all’iproniazide e i triciclici simili all’imipramina.

Negli anni ’70, con un’attenzione crescente al ruolo della serotonina e con lo sviluppo del primo inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina (SSRI), è stata sviluppata una terza famiglia di farmaci con la fluoxetina come capostipite. Questa classe di farmaci è stata ritenuta più efficace e priva degli effetti collaterali che ostacolavano l’uso dei precedenti.

La ricaptazione si riferisce al processo in cui i neurotrasmettitori, come la serotonina, vengono riassorbiti dalle cellule nervose dopo essere stati rilasciati nella sinapsi. Gli inibitori della ricaptazione, come la fluoxetina, prevengono questo riassorbimento, aumentando così la concentrazione del neurotrasmettitore nella sinapsi. Questo meccanismo contribuisce a mantenere attive le segnalazioni neuronali e a migliorare l’umore.

A cosa servono i farmaci antidepressivi e come funzionano

ANTIDEPRESSIVI: GLI INIBITORI DELLE MONOAMINOSSIDASI

La scoperta dei primi farmaci antidepressivi ha portato all’ipotesi che la sindrome depressiva era dovuta a un deficit dei neurotrasmettitori monoaminergici, che svolgono un ruolo importante nella trasmissione dei segnali tra le cellule nervose. Secondo questa ipotesi il deficit dei neurotrasmettitori poteva essere corretto farmacologicamente.

Gli inibitori delle monoaminossidasi, tuttavia, presentarono ben presto problemi che ne limitavano l’uso, cioè effetti avversi come l’ipertensione, aggravata dalla contemporanea assunzione di cibi contenenti tiramina, dalla tossicità epatica e da una scarsa maneggevolezza per la necessità di frazionare le dosi giornaliere. Per questo sono caduti progressivamente in disuso e sono stati in gran parte ritirati dal mercato.

ANTIDEPRESSIVI: I TRICICLICI

In seguito al declino dell’uso delle monoaminossidasi, i triciclici sono diventati il trattamento standard per la depressione. Anch’essi, sebbene con meccanismi diversi, agiscono aumentando il livello nel cervello dei neurotrasmettitori serotonina, noradrenalina e dopamina, facilitandone la trasmissione sinaptica tra neuroni.

Tuttavia, i triciclici presentano effetti collaterali, sia pure meno gravi rispetto agli inibitori delle monoaminossidasi, come secchezza della bocca per inibizione della salivazione, visione offuscata, stipsi, sonnolenza e aumento di peso. In caso di sovradosaggio, il rischio di insorgenza di aritmie cardiache li rende pericolosi.

ANTIDEPRESSIVI: GLI INIBITORI DELLA RICAPTAZIONE DELLA SEROTONINA

Come i triciclici avevano soppiantato gli inibitori delle monoaminossidasi, gli inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI) presto hanno soppiantato i triciclici. Le suggestioni di una loro maggiore efficacia si sono rivelate presto eccessivamente ottimistiche, ma sono stati comunque preferiti per la migliore tollerabilità e per il minore rischio in caso di sovradosaggio, elevato nei triciclici per gli effetti cardiovascolari. Il primo SSRI, cioè la fluoxetina, sostenuto da una massiccia campagna di marketing, è stato un successo di mercato senza precedenti nella storia della farmacologia. Dieci anni dopo la sua introduzione quasi 40 milioni di persone in tutto il mondo ne avevano fatto uso.

Nonostante poi si siano evidenziati anche per gli SSRI effetti collaterali, come nausea, cefalea e soprattutto disfunzioni sessuali, questi farmaci sono stati ritenuti a lungo meno problematici, non essendo messo in discussione il ruolo oggi consolidato nel trattamento della depressione.

Tuttavia, l’enorme diffusione degli SSRI, il cui consumo in Italia negli ultimi vent’anni è raddoppiato, desta crescente preoccupazione riguardo ad un uso inappropriato nelle depressioni lievi, nei bambini o negli adolescenti e negli anziani, per gli effetti sul funzionamento sessuale e per la sindrome di astinenza che ne rende difficile l’interruzione, determinando un uso estremamente prolungato.

NUOVI POTENZIALI FARMACI ANTIDEPRESSIVI

Nel corso del tempo, la visione della depressione si è evoluta, considerando lo squilibrio nell’azione dei trasmettitori come una delle cause, e superando il modello monoaminergico per includere interazioni con altri sistemi neurobiologici. Oltre alla serotonina, sono stati introdotti farmaci come la venlafaxina e la duloxetina, che inibiscono la ricaptazione anche della noradrenalina, insieme ad altri con effetti complessi sui neurotrasmettitori, come il bupropione.

Altri approcci includono la mirtazapina, che aumenta la trasmissione di serotonina, noradrenalina e dopamina senza interferire con la ricaptazione, l’agomelatina che agisce sui ritmi circadiani, e la vortioxetina.

Attualmente, sono in corso studi sull’effetto antidepressivo della ketamina, un anestetico, e di molecole psichedeliche come la psilocibina. Queste nuove prospettive potrebbero portare allo sviluppo di farmaci con meccanismi d’azione distinti, forse utilizzabili in combinazione con la psicoterapia.

Quando bisogna optare per l’uso di farmaci antidepressivi e la terapia psicologica?

La terapia farmacologica con antidepressivi e le terapie psicologiche basate su tecniche diverse sono considerate di pari efficacia nel migliorare i sintomi depressivi. Tuttavia, va tenuto presente che l’efficacia è relativamente modesta, e circa il 30% dei casi non risponde né ai farmaci né alle psicoterapie. Spesso, una combinazione di farmaci e psicoterapia produce risultati migliori rispetto ai trattamenti singoli. Mentre la pari efficacia è evidente nei trattamenti a breve termine, la psicoterapia sembra più efficace nel lungo periodo nel prevenire le ricadute.

E’ importante ricordare che la remissione spontanea, senza alcun trattamento, si verifica in una percentuale significativa di casi: 23% dopo tre mesi, 32% dopo sei mesi, 52% dopo un anno.

Nonostante l’equivalenza tra terapie farmacologiche e psicologiche, l’offerta di interventi nei sistemi sanitari come il nostro, è spesso sbilanciata a favore dei farmaci. Esperti dell’Istituto Superiore di Sanità hanno sollecitato misure per rendere più accessibili le terapie psicologiche, spesso più gradite rispetto ai farmaci.

I dati delle ricerche indicano chiaramente che sia i farmaci antidepressivi che le psicoterapie sono efficaci nelle depressioni di più gravi (non più del 15-20% dei casi). Per le depressioni meno gravi, interventi non convenzionali come l’esercizio fisico aerobico, alcune forme di fitoterapia, l’auto-aiuto e la partecipazione in gruppo ad attività strutturate possono dare buoni risultati. Infine il ruolo delle determinanti socio-ambientali sottolinea l’importanza del supporto sociale, non solo da professionisti, ma anche da parte di famigliari e caregiver, come aiuto per le persone depresse.

L’uso dei farmaci antidepressivi in gravidanza

L’uso dei farmaci antidepressivi durante la gravidanza richiede una particolare cautela ed è importante seguire le indicazioni del medico sulla terapia (farmaci, dosaggio), evitando di sospendere di propria iniziativa i trattamenti in corso o di modificare le dosi.

Gli studi sulla sicurezza d’uso in gravidanza degli antidepressivi inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) non sono giunti a risultati conclusivi.

Alcuni studi hanno osservato un aumento del rischio di malformazioni, in particolare di difetti cardiaci, non confermato però da altre analisi. Si stima, comunque, che la probabilità di anomalie cardiache nel neonato in seguito all’uso di antidepressivi in gravidanza sia al massimo il 2%, poco superiore alla frequenza (1%) con cui sono osservate indipendentemente dall’esposizione in gravidanza a farmaci. Si tratterebbe, quindi, di un piccolo aumento di rischio.

Se assunti nella seconda metà della gravidanza, gli antidepressivi potrebbero aumentare il rischio di ipertensione polmonare persistente nel neonato. Anche in questo caso si tratta di risultati non conclusivi e di un rischio molto basso (la frequenza con cui compare questa malattia è di 2-3 casi ogni 1000 neonati).

Infine, l’uso di farmaci antidepressivi nelle ultime settimane di gravidanza può causare sintomi “di astinenza” (per esempio irritabilità, tremori, difficoltà alla suzione) nel neonato dopo il parto. Si tratta di sintomi che scompaiono spontaneamente nell’arco di 1 o 2 giorni e che raramente richiedono un trattamento.

Occorre in ogni caso considerare che anche i disturbi depressivi, se non adeguatamente trattati, possono avere una ricaduta negativa sulla gravidanza e che, in alcuni casi, gli eventuali rischi dovuti ai farmaci antidepressivi sono minori dei benefici per il benessere della mamma e del feto.
Qualsiasi valutazione sulla terapia deve essere, comunque, fatta dal medico curante e dal ginecologo.

L’uso dei farmaci antidepressivi in allattamento

Ci sono farmaci antidepressivi che possono essere assunti dalla mamma che allatta senza rischi rilevanti per il lattante.

Quelli considerati di scelta in allattamento sono sertralina e paroxetina, che sono stati studiati in un numero consistente di coppie mamma-bambino: questi medicinali passano nel latte materno in quantità estremamente basse e pressoché trascurabili e raramente sono segnalati effetti indesiderati nei neonati allattati (p.es. irritabilità, difficoltà alla suzione).

L’uso in allattamento di altri farmaci antidepressivi (per esempio fluoxetina, citalopram, escitalopram) non è controindicato, ma richiede maggiore prudenza in quanto il nostro organismo li elimina in un arco di tempo maggiore.

In ogni caso, è necessaria la valutazione del medico curante e occorre seguire le sue indicazioni.

Fonte: www.marionegri.it

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