Il tumore al collo dell’utero: l’importanza della prevenzione
Il tumore al collo dell’utero (o della cervice uterina) è una neoplasia che ancora oggi ha una rilevanza epidemiologica e sociale molto importante: è il terzo tumore più frequente nella popolazione femminile nonostante, da molti anni, siano stati pianificati dei programmi di prevenzione estremamente efficaci.
Ad approfondire le tematiche legate a questa patologia il Professor Massimo Origoni, ginecologo dell’Unità Operativa di Ostetricia e Ginecologia dell’Ospedale San Raffaele e Docente dell’Università Vita Salute San Raffaele, la cui attività di ricerca è indirizzata principalmente allo studio dei meccanismi della trasformazione neoplastica del tratto genitale inferiore femminile.
La causa principale del tumore al collo dell’utero
“Sappiamo che la causa principale del tumore del collo dell’utero la possiamo ascrivere al Virus del Papilloma Umano, HPV (Human Papilloma Virus), ad oggi ampiamente riconosciuto come fattore necessario per lo sviluppo del carcinoma invasivo e identificato in una percentuale di donne che va intorno al 95-98% di tutti i casi diagnosticati”, ci spiega il Professor Origoni, esperto sulla correlazione tra HPV e carcinogenesi genitale femminile.
Il Papilloma Virus Umano è, dunque, la causa imprescindibile di questa malattia, ma da solo non basta a determinare l’origine del tumore del collo dell’utero. Un ruolo estremamente importante lo gioca il sistema immunitario del soggetto che viene a contatto con l’HPV. Soggetti sani riescono a liberarsi dalla contaminazione del Papilloma Virus in periodi di tempo anche brevi; quando, viceversa, ci sono delle carenze dal punto di vista dell’efficacia della risposta immunitaria, il virus rimane più a lungo nel tratto genitale femminile e la persistenza dell’infezione virale diventa il vero fattore di rischio.
I sintomi del tumore del collo dell’utero
L’età di massima incidenza della neoplasia del collo dell’utero è la fascia di età tra i 45 e i 55 anni, un’età giovanile considerando quella che è attualmente l’età sociale delle donne.
Molto spesso il tumore non ha una sintomatologia tipica, ma nella maggior parte dei casi viene a configurarsi con la contemporaneità di diversi aspetti, molto comuni, che spesso sono sottovalutati. Il Professore indica come segnali di sospetto di malattia:
- sanguinamento atipico;
- secrezione cervicale o vaginale persistente, spesso con caratteristiche molto simili ad infezioni;
- dolore pelvico durante i rapporti;
- sanguinamento dopo un rapporto di coppia.
“Tutte situazioni che non devono essere sottostimate, ma contrariamente devono essere adeguatamente riferite al proprio ginecologo e che, soprattutto, devono essere indagate, sapendo che spesso un sintomo di modesta entità può nascondere un problema molto concreto”, specifica lo specialista.
Lo screening: un’arma contro il tumore al collo dell’utero
“Attraverso i percorsi di prevenzione, non solo è possibile la diagnosi precoce del tumore al collo dell’utero, ma ancora più importante è possibile identificare le lesioni che precedono il tumore vero e proprio; inoltre, attraverso la prevenzione primaria, e cioè la vaccinazione contro l’HPV, abbiamo un arma estremamente efficace contro questo tipo di malattia”, afferma il Professor Origoni.
Ad oggi lo screening del carcinoma cervicale, il terzo screening sulla scala nazionale, si basa essenzialmente sul riconoscimento del fattore di rischio principale, cioè del Papilloma Virus Umano, attraverso il cosiddetto HPV test: un test biomolecolare che identifica se è presente il DNA del virus e, di conseguenza, se il soggetto è esposto al rischio di sviluppare la malattia.
L’esecuzione del HPV test nello screening primario è una nozione abbastanza recente e la regione Lombardia lo ha approvato come unico test nello screening organizzato da quest’anno. Le pazienti iniziano il percorso di screening a 25 anni, attraverso l’esecuzione di un Pap test, dai 30 anni in poi l’HPV test diventa l’esame principe e si riserva il Pap test nel caso in cui quest’ultimo risultasse positivo.
“Una cosa molto importante da sottolineare è che la positività per HPV non significa assolutamente malattia, bensì significa una esposizione a una certa quota di rischio. Questa quota di rischio è variabile in base alle caratteristiche del soggetto e soprattutto è variabile in relazione al fatto che il sistema immunitario riesca a liberarsi in tempi più o meno brevi da questa infezione”, continua lo specialista.
Un’adeguata prevenzione è estremamente fattibile ed efficace, ma, ciò nonostante, ancora oggi si osservano casi di tumori in stadio avanzato. Questo significa che esistono delle oggettive difficoltà all’ottenimento di una efficace e totale prevenzione primaria e secondaria. Vale a dire che non tutte le donne aderiscono ad un adeguato programma di screening oppure non lo effettuano con la regolarità e con i criteri che vengono identificati ormai in tutto il mondo.
Il percorso di diagnosi e cura
“Una volta identificata la positività all’HPV test, la paziente inizia un percorso di approfondimento. Questo percorso prosegue con il Pap test e, qualora anche questo indicasse la presenza di cellule atipiche, si continua con esami di secondo livello, che spesso prevedono l’esecuzione di una biopsia della cervice uterina ed eventualmente la conferma della presenza di una problematica di tipo neoplastico” ci spiega il Professore.
Qualora fosse diagnosticata la presenza di cellule neoplastiche si dovrà procedere alla gestione clinica del caso in relazione all’esame istologico. Il Professore identifica 2 casi:
- se la biopsia indica una lesione che precede il tumore, la cosiddetta Neoplasia Intraepiteliale Cervicale (CIN), localizzata quindi solo sulla superficie di piccole porzioni del collo dell’utero, si procede con piccoli interventi conservativi, quali, ad esempio, la conizzazione, che preservano l’integrità dell’utero e preservano la capacità riproduttiva della paziente;
- se la neoplasia si trova ad uno stadio non più iniziale risulta necessario inquadrare il caso da un punto di vista generale. Ciò comporta una valutazione clinica più ampia, un imaging della pelvi femminile e una serie di esami che precedono la scelta di trattamento.
La rimozione chirurgica dell’utero è lo standard di terapia nei tumori cosiddetti localmente avanzati, cioè non più passibili di un piccolo intervento conservativo, ma non così estesi o diffusi ad altri organi. Qualora la malattia, nella peggiore delle condizioni, assumesse una disseminazione più ampia, si dovranno impostare dei percorsi di trattamento combinati.
Sopravvivenza e l’importanza del percorso di prevenzione
“La sopravvivenza a questi tumori cambia moltissimo in relazione all’estensione della malattia: gli stadi iniziali hanno un’ottima sopravvivenza, vale a dire nell’ordine del 90%, perché la paziente guarisce con la rimozione dell’utero trasformato in neoplasia. Questo rende ancora più ragione di quanto sia importante garantire tutte le opzioni che sono disponibili alle donne per non perdere tempo e per cogliere il tumore al suo primo segnale di sviluppo, o meglio, prima ancora che dia ogni segnale della sua presenza”.
Gli ultimi dati epidemiologici dell’Istituto Superiore di Sanità dicono che l’attuale incidenza in Italia di tumore del collo uterino è di 7 casi ogni 100.000 donne all’anno. “Un numero coerente con quanto avviene mediamente in paesi occidentali molto efficaci dal punto di vista preventivo e di sanità pubblica. I dati di cui disponiamo attualmente ci dicono che in Italia circa l’80% delle donne fa correttamente uno screening, quindi, un ottimo risultato; lo sforzo che deve essere fatto è quello di riuscire a raggiungere quel 20% che ancora ci manca, ed oggi tutti i nuovi casi di tumore che vengono diagnosticati, sono in donne che riconoscono qualche carenza nel loro percorso di screening”, conclude il Professor Origoni.
Fonte: www.hsr.it